Poesie
Caffetteria Mauro
Quando la notte è lunga e selvaggia
da morire, quando cerchi degli occhi in cui perdere
un'alba, un posto dove passare indenne i suoi
postumi, quando cerchi di farla passare indenne,
ecco che pensi a Lei.
Chi sa se adesso la caffetteria è aperta, se c'è
Il mio angelo biondo a servire il cornetto,
se c'è ancora accesa la luce speranzosa dell'interno,
nelle strade di periferia, di passaggio...
Piccola città, anche se di ottantamila abitanti: i locali
Chiudono presto la notte, tranne forse ora che è sabato.
O forse sono io che preferisco il mio mal di stomaco
Ad uno, ben più grave, di persone.
....................
Sulla vita
"La vita è bella", dicevi, nell'auto,
"La forza è in noi, dobbiamo solo estrarla",
aggiungevi ancora,
e altre forme di incoraggiamento tendenti a
Farmi coraggio e affrontare la vita, dicevi.
Io sempre invece stordito, sempre accondiscendente,
ascoltavo le parole che sentivo (e la tua faccia)
dubbioso sulle necessità che elencavi.
Pensavo che per vivere, non bastava solo volerlo
Fare, occorrevano anche i mezzi, i soldi, per farlo...
E per ottenere i soldi, come già ti dissi,
uno la vita se la deve rovinare.
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Postfazione del libro di Roberto Volpe, uscito l'anno scorso e che l'autore si è auto pubblicato.
Titolo del libro: "Il povero e il sacco d'oro".
Postfazione scritta da: Antonio Russo De Vivo.
Roberto Volpe è un poeta atipico.
Chiunque desideri accostarsi ad una poesia elegante, curata, armoniosa, a quella poesia in continua tensione verso la bellezza che in Italia ha una tradizione tanto importante, che si volga altrove. I versi di Volpe sono spesso rudimentali, poco curati, irsuti, e l’armonia e la bellezza, quando compaiono (non di rado in verità), inducono nel lettore sensazioni di estraniamento, tanto aliene esse si presentano al contesto. Non è la ricerca della bellezza l’epicentro dell’opera del poeta, ma tutt’altro. È la solitudine, estrema, che nulla ha di bello, il punto dal quale si dipartono i suoi versi duri e desolati. Lo si vede in maniera netta,con una sincerità tale da rasentare la nudità, nella poesia Aborro il sabato sera:
Aborro il sabato sera.....
.. ..
per chi non è popolare....
‘sto giorno significa solitudine, rancore,....
noia, e un qualcosa d’alienazione.....
.. ..
passate le “glorie” liceali, fidanzatisi tutti....
i miei marmocchi amicali, son rimasto....
praticamente solo.....
.. ..
soltanto tempi bui, da allora:....
si preparano per tutta una vita.....
Roberto Volpe spesso si abbandona all’amarezza della sua condizione, commettendo però un grave errore: quello di considerarla pena cui è destinato lui solo. Si capisce subito, dal principio, che la silloge è una cronaca dei “suoi” dolori, e che l’io poetico si fonde con l’autore. Ma è innegabile che questa sua condizione è più comune di quanto egli voglia pensare e far credere al lettore. La solitudine è un fenomeno massificato, e lo sviluppo straordinario dei mezzi di comunicazione non ha potuto certo guarire la più insopportabile e diffusa delle malattie. Volpe porta all’eccesso questa condizione, cantando quella solitudine contemporanea che spesso si consuma tra le masse, che siano esse mediate dal web, oppure reali. Esemplare a riguardo è la poesia Voglio fidanzarmi con te:
[…] So che hai
tutti i “ponti”
che richiedo: msn, facebook (!),
(senza la tua faccia,
paradosso virtuale) […]
oppure i primi due versi di Sostituzioni d’affetti:
Ciò che mezz’ora coll’amore tuo ti dà....
lo ritrovi intatto o quasi in cinque minuti di Tube8:.... […]
L’universo sterminato di internet funge da immaginario cui attingere situazioni che sono sempre più diffuse. In particolare la ricerca di un’altra realtà dove superare i propri limiti, e dove provare ad uscire dalle melme immobilizzanti della solitudine. Il linguaggio poetico stesso, talvolta, è mimetico rispetto a quello di una chat, di un forum o altro.
Ma è evidente, alla fine, che l’io poetico non trova respiro nel mondo virtuale. Un senso continuo di irrequietezza, di noia, di cinica ma fragile rabbia, quella di un cane chiuso in una gabbia strettissima dalla quale non riesce ad uscire, nonostante essa sia aperta, questo è quanto si percepisce leggendo. Il poeta non è ancora abbastanza maturo per odiare la vita, eppure al contempo non è abbastanza incosciente per parteciparvi intensamente. C’è un desiderio di vivere che serpeggia come desiderio inappagabile, come brama continua e perpetuamente insoddisfatta. Se fosse un personaggio di Dostoevskij, egli sarebbe Raskolnikov. Come il protagonista di Delitto e castigo Volpe si ritiene, nel suo essere artista, individuo eccezionale, e in virtù di ciò si scaglia talvolta con furore contro la gente comune. Singolare, nel suo caso, è che lo status di artista si confonda con un’intransigenza morale rara, tipica di chi ha molta cura della propria dimensione etica, o sostiene cause tali da mal collimare con l’umano errare. Eppure dobbiamo dire che il poeta, come tutti i giovani, patisce tutte le incoerenze dell’età, e nuoce talvolta ai suoi versi proprio il cortocircuito tra le sue “elevate” pretese nei confronti del prossimo e il suo medesimo fallimentare discutibile rapportarsi ad esso. Non ha l’esperienza per potersi impancare a giudice, è questo il punto. Ma la riuscita dell’opera deve molto anche alla strenua e disperata ricerca di cause da sostenere, di valori da abbracciare e di divinità cui sottostare. Una fame di religiosità, soprattutto, tiene banco, e in tal senso si spiega il titolo dell’opera, riferimento dichiarato a un’affermazione di Kirillov ne I demoni:
«Ecco, io non ho mai potuto capire questo vostro punto: ma perché siete voi Dio?»
«Se Dio c’è, tutta la volontà è sua, e io non posso sottrarmi alla sua volontà. Se non c’è, tutta la volontà è mia, e son costretto a proclamar il mio libero arbitrio.»
«Il libero arbitrio? Ma perché siete costretto?»
«Perché tutta la volontà è diventata mia. Possibile che non ci sia nessuno su tutto il pianeta, che dopo averla fatta finita con Dio ed aver posto fede nel proprio arbitrio, osi proclamar il libero arbitrio nel senso più assoluto? Come un povero che abbia ricevuto un’eredità e si sia spaventato, e non osi avvicinarsi al sacco del denaro, stimandosi incapace di possederlo. Io voglio proclamar il mio libero arbitrio. Che sia pure il solo, ma lo farò.»
Pochissime battute prima Kirillov dice «Se non c’è Dio, io sono un dio» , e poche pagine dopo si suicida sparandosi alla tempia destra.
Roberto Volpe si trova esattamente nella condizione opposta rispetto al personaggio de I demoni. Egli è proprio come il povero spaventato che non osa avvicinarsi al sacco del denaro, e la paura si manifesta nell’ossessivo implacabile anelito verso Dio e verso l’Altro per eccellenza: la Donna .
Il rapporto con l’altro sesso, in tutta l’opera, appare costantemente contrastato. Il tono utilizzato, a tratti, è da amante furioso, come in Ma vai, vai:
Poesia non inserita poiché vi sono parole non idonee alla linea da me seguita per questo mio sito.
Viene in mente Catullo, - definito da Charles Baudelaire “poeta epidermico” -, per il quale Guido Ceronetti espresse un giudizio che potrebbe interessare, fatte le debite distanze, anche Volpe:
Catullo è un poeta dell’interiorità, ma la sua interiorità appare levigata come una superficie. Gli organi interni sprofondati nel loro fisiologico male, i latiboli fumanti, i centri cloacali dell’anima, cedono sotto la sua mano la loro stranezza e il loro disordine di profondità.
Volpe soffre, e anche per lui la sofferenza si fa fisica, come possiamo vedere in questi versi da Le relazioni:
Pensavi che saputi i tuoi interessi,
le cose sarebbero andate finalmente pacificamente.
Non è stato così, o non lo è, almeno.
Nient’altro che problemi in ogni relazione, e colite nervosa,
e dolore (da ambo le parti, non lo nego!!).
Una tale sofferenza è comportata dall’impossibilità a instaurare un qualsivoglia rapporto con la Donna, da lui considerata in un vetusto senso biblico (sicché lo scontro con la contemporaneità, in cui la figura femminile ha chiaramente connotati diversi rispetto alla figura matriarcale di radici antiche, appare inevitabile), come si evince dalla poesia Al cugino Eugenio:
Caro cugino, io lo so che tutti noi vorremmo....
star sotto il pacchero in gioventù,....
e farci una famiglia con tanti marmocchietti....
giocanti in un prato in età adulta:....
.. ..
ma purtroppo, lo vedi, loro non collaborano....
e non vogliono collaborare.....
non sono più quelle delle Sacre Scritture,....
non sono più le nostre Compagne, purtroppo.....
L’amore professato da Volpe pare proprio essere il corrispettivo contemporaneo di quello del poeta veronese, circa il quale Ceronetti scrive:
L’amore catulliano sviscera soprattutto una delusa sete di tenerezza pura, come un raptus di compassione protettrice [...] per una irraggiungibile Lesbia, una illusione ferrignamente trascinata da un’anima innocente al proprio piede, in un punto lucidamente diagnosticata come una malattia vergognosa, tanto all’aria della vita si è guastata [...] .
Ma questa “malattia vergognosa”, in Volpe, assume caratteri universali, scagliandosi egli contro il sesso femminile tutto, fonte di immane tortura, come detto esplicitamente in Le ragazze intelligenti:
Ragazze che si fanno belle
solo per il proprio ragazzo,
e camminano tenendosi la mano
per le strade del mondo, ignare di chi
si aggira spiando il loro idillio:
quando escono con te, però, vengono
come sono, pensando: "Tanto quello
se mi ama, mi amerà comunque, anche brutta."
Ragazze complesse, quale, quale, tortura...
La ricerca della donna materna, protettiva, dolce, e futura regina del focolaio domestico, è destinata al continuo insuccesso, e la rabbia e la delusione si alternano confermando, nel complesso, un senso di disfatta impossibile da rovesciare. A questo punto la solitudine, paradossalmente, diviene porto protettivo in cui ingannare il dolore di non riuscire a trovare il desiderato connubio con l’Altro, la Donna, e ciò si esprime a perfezione nei versi ambigui di Provoca che si ergono a conclusione ideale di questa fase del percorso poetico di Volpe:
Provoca eruzioni
sottocutanee il solitario
nel bianco giglio della purezza
(e te lo raccomando),
non ha un manuale per dirigere i fiori,
l’hanno creato in tal guisa.
È solo un povero uomo
cercante la felicità dio sa come.
A. Russo De Vivo