Poesie
Chiederò mare in burrasca
Bruco accovacciato,
guardo le sabbie morte
sbrunire i colori del mare.
E non fiato, non fiuto, non ascolto.
Sedato sopra l'aria stanca,
vedo le acque di luna chiara
bagnare gli anni della giovinezza.
E parlo, fiuto, ascolto.
Così,
rinasco come alba
che aspetto tra le danze
inventate in questa notte
dalle fantasie di un insorto.
Al sole,
che intanto s'alza,
chiederò mare in burrasca
perché la barca rimanga qui.
Risentirò i suoni delle onde.
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A te che piangi nella tua ora stramba
Vorrei svelare il segreto della felicità
a te che piangi nella tua ora stramba
ma io non son capace di inventarmi
minimo appiglio dal quale cominciare.
Potrei provare a escogitare inganni
portando fiori che profumano perenni,
oppure Pulcinella all'istante diventare
per porgerti a mille sorrisi e capriole.
Potrei interpretare una canzone folle,
far levitare il corpo all'improvviso,
sommare all'assoluto zero l'infinito,
giocare al gioco che non so giocare.
Ma é meglio che mi metta nel cantuccio,
che scorti al confine il tuo dolore
e ti costringa ad alzare gli occhi
che rideranno alla nuova luna.
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Note autobiografiche
Aurelio Zucchi è nato a Reggio Calabria il 7/2/1951. Conseguito il diploma di Geometra, nell’agosto del 1970 si è trasferito a Roma, città dove vive e lavora come Agente di Commercio. E’ sposato e ha due figli.
Ha sempre avuto predisposizione ai rapporti umani e vivo interesse per la letteratura. Come scrittore, ha esordito con il romanzo “Viaggio in V classe” (Edizioni Il Filo - Prefazione di Pietro Zullino). Questo libro, pubblicato nell’ottobre del 2006, rappresenta per l’autore un valore assoluto. La determinazione, l’energia e l’impegno profusi nella concezione, nella stesura e nella cura del romanzo, sono strettamente legati alla ricerca di linguaggi capaci di liberare l’io narrante seguendo il dettato del cuore e della verità. Raccontare una storia “normale”, che fosse in grado di privilegiare l’ordinario senso della vita, è stato per lui precetto fondamentale.
Sulla scia emozionale e gratificante del suo primo romanzo, l’attività letteraria di Aurelio si sviluppa più attivamente a partire dall’ottobre 2006. L’intensificazione della scrittura, esigenza primaria per l’espressione della sua personalità, induce l’autore (scrivente, come lui ama definirsi) a manifestare all’esterno le emozioni e le suggestioni del tempo narrato. La poesia, arte da non disperdere nei propri egoismi, lo affascina e lo cattura. Inizia così il suo amato percorso in versi, incoraggiato in questo dai riconoscimenti via via ottenuti ma soprattutto dall’innata voglia di darsi, anche con la scrittura, agli altri. Nel giugno del 2010 viene quindi pubblicato il libro “Appena finirà di piovere”, sua prima raccolta di poesie (Global Press Italia - Prefazione di Angela Ambrosoli). Diversi suoi testi sono pubblicati su Antologie e Mensili dell’ambito poetico e narrativo nazionale.
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Prefazione di Pietro Zullino
Un narratore esordiente propina di solito vicende che dovrebbero affascinare in quanto straordinarie, ma così facendo banalizza l’eccezionale, al prezzo di non farsi più leggere la prossima volta. Invece Aurelio Zucchi, con abile e astuta penna, scrive uno slow work di piatta vita ordinaria, irritante, che tuttavia chiede perentoriamente d’esser letto, perché opera il miracolo di far lievitare a romanzo il nulla da cui prende le mosse.
Zucchi ripropone (non diremo si parva licet) il teorema già dimostrato da Joyce nell’ Ulisse e da Musil ne L’uomo senza qualità, e in fondo anche dalla proustiana Recherche: il teorema dell’eccezionalità del banale. Infatti, stando alle regole, noi, in questa Italia progredita fino al suicidio, dovremmo considerar banale – anzi niente assoluto – la storia d’un gruppo di adolescenti calabresi in cerca, nel 1970, d’una maturità da immaturi, alla vigilia d’un faticato diploma da geometri. Un po’ rinoceronti, un poco manzi, questi residuali square si preparano in ottusa umiltà alla professione, agli impieghi, a una vita di lavoro, al matrimonio, ai figli, alla pancera: come dire al sostegno – perché non crolli – della baracca nazionale, sul cui tetto danzano intanto i forsennati del liceo umanistico, frotta di quelli che tra poco sfasceranno le università autoproclamandosi, nel ridicolo, nuova classe dirigente.
Vivono in un castello, estranei al mondo che s’infuoca, gli apprendisti geometri di Reggio Calabria. Non diverranno politici ma uomini dabbene, anche se Roma campeggia lussuriosa sullo sfondo. Hanno in mente solo le fatiche del diploma, in ciò disturbati dall’ inescansabile rapporto con ragazze emancipanti di buona famiglia e perciò complicate, nemiche, parafemministe, anestetiche o indocili all’introduzione – rapporto che un poco li cruccia ed estenua, ahimè.
Spezza tanta gravitas qualche scivolata, qualche volgarità, qualche mangiata di pesce sullo Stretto e, ogni tanto, la mercede d’una siesta con la svedese di passaggio. Ma ben altro dovrà essere la vita ed essi lo sanno: quindi parlano ossessivamente di Topografa, di Estimo, di Scienza delle Costruzioni; e si fanno problema dei loro professori, e del presente, e dell’incerto certissimo domani. Hanno costituito una cooperativa di buoni propositi; non marciano per il Vietnam o contro l’incombere dell’apocalisse atomica, né vogliono cacciarsi nel tumulto delle lotte giovaniliste, ché anzi ne vengono afflitti: perché gli scioperi, è noto, creano scompiglio e rallentano il tuo processo di ansiosa integrazione all’ingiusta società. Seguir la corrente non la seguono, forse neanche la sentono; come hanno evitato i moti del Sessantotto, così nel Settanta evitano persino di salire sulle barricate della loro Reggio insorta contro lo Stato arrogante e padrone: incombono gli esami.
E di farsi esaminare sentono l’obbligo, il masochistico piacere e naturalmente anche la paura. Ma non c’è tra loro un Franti. Quasi tutti amano i professori, quasi nessuno odia i genitori: ecco fatta l’eccezionalità del banale. Ma davvero la classe è storia da niente? E se fosse invece, sotterranea, la vera storia di questo paese, replicata di nascosto in cento province e città? Talmente lontana dall’idea che dei vostri tempi vi siete fatta, talmente estranea alla vulgata massmediatica degli anni ’60 e ‘70, da sembrare falsa? Invece è autentica, teatro-verità: qui ne è attore e protagonista Zucchi, lui stesso, coi suoi compagni e i suoi trèpidi maestri: tutti chiamati per nome e cognome, tutti testimoni del fatto, tutti raccolti in una ‘ndrina di maschi finalmente diplomati che si giurano solidarietà per l’intera vita (e attenzione, attenzione davvero: maschilista è la classe, d’una settarietà pitagorica, con quell’universo femminile perennemente in agguato alle porte del castello, tutto teso a disguidare gli amici, a scollegarli dalla fibbia).
Il libro che avete sotto gli occhi può sembrare un romanzo di formazione alla rovescia, un bildungroman a capofitto. E se invece fosse a testa in su? Mentre l’Italia s’è riempita di memorie di ex giovani turbolenti che raccontano i loro rivoluzionari percorsi di crescita, perlopiù finiti nei laghi amari della delusione (quando non sulla bancarella delle anime in svendita) qui risuona il basic ground bass d’una zampogna tradizionale un po’ stralunata epperò, a dispetto d’ogni coprente frastuono, mai dismessa; salvata dal diluvio e quindi, alla fine, vincente. I rinoceronti – ove sappiano esprimersi – avranno l’ultima parola.
Con queste ali s’invola il sorprendente romanzo di Zucchi, ben costrutto documento, affollato di personaggi guizzanti seppur demodè, ricco d’una sincerità tetragona che fa grumo sulla pagina, soffuso d’una bellezza malata che suscita ammirazione e insieme raccapriccio: descrive infatti l’odiosa Italia dell’eterna controriforma, che sempre perde il treno della modernità, e sempre per colpa o frode di macchinisti infedeli.
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Copertina del libro di poesie di Aurelio Zucchi
Editrice Global Press Italia
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Prefazione sul libro "Appena finirà di piovere"
Ai “Caffè letterari 2009” del Rhegium Julii il lucano Giuseppe Lupo, parlando del suo ultimo romanzo, “La carovana Zanardelli”, ha confessato che, vivendo a Milano da oltre venticinque anni, ogni sera, quando in casa sua si spengono le luci, egli ripercorre con gli occhi della mente la mappa cittadina e umana del suo paese natale.
Carmine Abate, calabrese arbereshe, da una vita trapiantato al Nord, con parole diverse ripete lo stesso concetto. Che non è lo sterile orgoglio di una patria antica culla di civiltà, ma la testimonianza che il Sud, oltre ogni luogo comune sulla mafia, triste realtà purtroppo, è una terra ancora inesplorata sul versante delle positività, ricca di paziente dignità, di un genio e di una umanità che non solo coltiva sogni e utopie ma sa tradurli in fatto dove l’individuo è libero di esprimerli.
In questa scia del “nuovo pensiero meridionalista” s’inserisce il sentire di Aurelio Zucchi, scrittore esordiente col romanzo “Viaggio in V classe” (Edizioni Il Filo – Pref. di Pietro Zullino) e poeta dalle mille melodie cantate sulle sette note in “Appena finirà di piovere”, sua prima raccolta poetica pubblicata.
Dotato, egli, di una media estensione sintattico-lessicale, che lo sguardo acuto e mobile e la fervida immaginazione esaltano e dilatano, sa modulare infinite variazioni su pochi temi che prendono abbrivio dall’apparente banale realtà.
La quotidianità gli offre infatti molteplici occasioni per comporre versi connotando ogni matericità della sua più intima dimensione umana e creativa.
Nella presente raccolta, strutturata da Aurelio Zucchi per brevi suddivisioni (Io e gli altri – Io e Me – Lei – Lui – Mare – Notte), l’ispirazione ha come punto fermo la sua “prima età” trascorsa sulle rive dello Stretto della Fata Morgana di cui si porta dietro un incancellabile ricordo, quasi stigma di una vita. Il poeta è ben consapevole della poco esaltante attualità che egli vive, anche fisicamente, in un altrove non privo di soddisfazioni materiali, ma indifferente, distaccato, arido e distratto dal forte richiamo della spinta all’ostentazione dell’effimero e al facile guadagno. Metalli, argenti, bronzi e ori finti/ si sono sostituiti ai riflessi della vita/ e splende il luccichio d’indegna vanità” (Cerco poesia in questo tempo strano). Ma non ha intenti moraleggianti, Zucchi: il suo pungolo costante è perseguire la bellezza interiore per non lasciarsi così mai sopraffare dall’amarezza e dalla delusione sempre incombenti. Si rende cioè conto della difficoltà di esprimere poeticamente questo nostro tempo che opprime con le sue mille esigenze pilotate, la sua superficialità, il suo diffuso egoismo, il correre senza meta. E’ anche cosciente che quella felicità sempre cercata non arriverà: “attendo da millenni, assieme agli altri… il pane della felicità” canta con la desolazione di Samuel Beckett in “Aspettando Godot”. “Nuovo Ulisse”, è persino tentato alla resa ma, segnato da una sensibilità umana e poetica profonda, conosce la sua “incapacità” ad adattarsi ai tempi e invoca aiuto dal Signore perché ascolti le sue angosce di uomo, solo in mezzo a tanti uomini soli. E poiché come tanti ha dimenticato le parole rituali della preghiera, si chiede se “basteranno le mie fredde mani giunte” (Com’é che pregherò?) a impetrare un domani migliore.
Parla di sé e dei suoi simili, il poeta, senza ostentare pretese di corale religiosità anche se in molti versi coglie l’universalità del sentire.
Nonostante il presente non lo soddisfi, eticamente e coraggiosamente pensa positivo. E’ fermamente convinto che ogni riscatto è affidato alla volontà e al cuore dell’uomo e per quanto è nelle sue possibilità promette:
“Dovessi una ad una ripercorrere/ le strade levigate o ciottolose del mio girovagare per la vita/ raggiungerò quell’agognata meta/ dell’essere stato compiuto uomo” (Penultima scena).
Per affrontare le difficoltà e superare le inquietudini, ricorre all’arma vincente della fantasia che può trascinare lontano da “…chilometri d’ansie e di sospiri/ e facce tristi nelle tristi strade”. E se in un tempo come il nostro la felicità non si lascia conquistare, “al ritmo di certi versi irresistibili” (Caro me) il cammino sarà più lieve purché un angolo del cuore custodisca i ricordi più belli.
E’ la sua poetica “non poetica”, cioè non teorizzata, ma è evidente che l’urgenza del suo verso nasce da un’idea di poesia intesa come benefica e salvifica.
Per sollecitare l’ispirazione, ora che “Tutto nell’indifferenza/ rimbalza e torna a me/ pietrificato”, Zucchi escogita vari “Tentativi”.
Ben conoscendo l’inadeguatezza del linguaggio, implora dai sapienti persino “un alfabeto in più” che gli permetta di sfiorare la perfezione del dire, sicché possa abbandonare “le parole consumate e finte/ che portano la sete ardente/ della verità e della conoscenza” (Respirare me).
Date le amare constatazioni sul presente, dove cercare la poesia se non nei sogni di quella vita giovanile di cui è rimasta solo la dolcezza di un tempo spensierato che sapeva accettare ogni difficoltà con dignitosa coscienza e senza l’assillo dell’avere?
“Quel tempo e quell’età” di leopardiana memoria hanno profondamente segnato la sensibilità del poeta con una marcata impronta di onesti intendimenti che lo accompagnano nell’età matura; sono stati gli anni della sua formazione durante i quali ha apprezzato ogni attimo come un dono divino che ha custodito con animo sincero e fedele. Perciò ancora i ricordi cantano nel cuore, quando si risvegliano, e il verso si scioglie in una felice armonia di accenti che nella semplicità del dettato suggeriscono una forte spinta emozionale. Mai cupa, però, o dagli esiti leopardianamente pessimistici.
Sebbene talvolta “nostalgie perenni” attraversino la sua affannata quotidianità, balzando dai ricordi di gioventù sempre in agguato, i versi di Zucchi non hanno mai toni disperati. Anche se risulta inevitabile, di tanto in tanto, un bilancio della propria vita (La mia stagione - Caro me), nel continuo confronto tra l’età giovanile e quella presente, la prima rappresenta la via di fuga, quell’uscita di sicurezza che consente di vivere la deludente attualità. Scontato punto di approdo dello smarrimento esistenziale diventa allora il sogno, il sogno vissuto come fondamentale categoria poetica. I sogni sono viatico a conforto della fatica del viaggio. Sono talmente necessari che il poeta s’interroga non solo su quelli “che fino ad oggi ho fatto” ma anche su “quelli che non ho fatto mai” e, addirittura, su “tutti quelli che ancora devo fare”. E i suoi versi, come i sogni, respirano e vibrano di lirica intensità. Non manca tuttavia qualche ribellione alla tirannia dei giorni felici sicché “ordina” di liberare le fate che “in fondo, rimuovevano magie/ al solo scopo di destare sogni/ o arcobaleni per amar colori” (Così ho deciso).
Umanamente affaticato dall’incessante dominio che il sogno esercita su di lui, talvolta si lascia sopraffare dal senso d’impotenza per un passato dal quale vorrebbe liberarsi: “Dimmi, mare perso, cosa devo fare/ perché io possa finalmente/ sigillare il cassetto dei ricordi/ in attesa che il futuro giunga” (Mediterraneo e basta). Ma si può rinunciare ai sogni, a tutti quei sogni che arrivano sempre dolci e benefici, anche quando insinuano inquietudine come “fantasmi in cerca della loro pace”? Trascinano con sé memorie di aspirazioni sane, di nascenti amori, di momenti, di amicizie indimenticabili.
Hanno conservato inalterati i suoni, gli odori e i colori della terra natia, il blu del mare soprattutto e ovunque, perché il mare è madre primordiale.
Il poeta li evoca, con la freschezza degli anni che solo anagraficamente non ha più, in una sinestetica disposizione dell’animo: “Riascolto all’infinito/ le voci del mio ieri/ e, quanto bravo sono diventato,/ oggi vedo addirittura i suoni” (Archivio).
Fruga così ogni suo angolo di gioventù e ne saccheggia ogni ricordo rimanendovi ancorato esattamente come il naufrago al provvidenziale appiglio. L’insistenza nel risvegliare le antiche emozioni per ritrovare cose e persone amate (la madre, la madre soprattutto) sa tanto di lezione pascoliana: i sogni di Aurelio Zucchi hanno la freschezza di un “fanciullino” che, sempre vivo nei precordi del poeta, spunta come esigenza esistenziale prima che come consapevolezza letteraria: “Alla scuola dei monelli, dei sospiri e primi sogni,/ io rubavo fantasie altrui nell’attesa anch’io di averne” (Non rubare i miei colori).
Si legge in Pascoli: “Il fanciullino, sovvertendo le norme della razionalità, fa sì che si scoprano nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose: anche nelle cose quotidiane o familiari… il nuovo non s’inventa, si scopre”.
Zucchi esprime tutto questo con una grande naturalezza, posa il suo sguardo incantato sugli oggetti e i luoghi più usati e, con originale trasposizione analogica, ricava una grande varietà di stati d’animo e di meditazioni sempre molto personali e sorprendenti (Come quella “scatola di latta” nella quale da bambino custodiva i colori da disegno dei quali ora scopre la corrispondenza coi colori della sua vita).
Da più parti ricaviamo che, se gli sono congeniali poetiche moderne come quelle di Pascoli e di Baudelaire, fondamentali per la poesia contemporanea, tuttavia in lui la tecnica dell’analogia non è utilizzata come “risorsa retorica”, come metodo a priori della scoperta della realtà.
La sua abilità nel cogliere particolari rapporti tra l’uomo, la natura e le cose è quasi istintiva, innata. Più che auscultare suggestioni e misteriosi messaggi, Zucchi si immerge nel reale per seguire quei sottili fili di ragno che tramano relazioni nel profondo e fanno percepire un valore, il senso del loro esserci.
Con questa predisposizione si accorda l’uso indifferente del verso libero e di quello sciolto, che Zucchi adopera in un fraseggiare apparentemente prosastico ma che sfruttando con sapienza risonanze di echi interni alla parola, pause, cesure, enjambements, egli compone in arie suggestive di duplice impatto evocativo e di pensiero. In questo poeta, lontano da ogni intellettualistico compiacimento, è la forza del cuore puro che si fa parola e struttura il verso in intimistiche cadenze.
Di contro ai sogni giovanili, alle speranze accarezzate, l’inesorabile tirannia del tempo che incalza la vita e mette affanno al pensiero: “Hai mai provato, figlio mio,/ a inseguire il veloce tempo/ in modo da non perderlo di vista/ ……a tallonarlo, senza alcuna tregua/ fino al preciso punto d’affiancarlo?” (Anima e corpo in ginnica tenuta).
Il tempo è l’altra importante categoria su cui si misura la creatività poetica di Zucchi. Nella poesia “Appena finirà di piovere” la distinzione tra il tempo astronomico e il tempo dello spirito è netta e si colloca in quelle dimensioni degli opposti principi che governano il mondo: luce-buio, razionale-irrazionale, bene-male, ecc.
Questi, pur rimanendo irriducibili, sono tuttavia complementari per il Nostro, irretito nel dualismo passato-presente, giorno-notte, veglia-sonno.
La dimensione onirica prende vita e alimento costante, infatti, da quella vigile e razionale. Se il tempo del ricordo elude il divenire, è quello che ci appartiene in quanto soggettivo, si alimenta degli stati d’animo che ci governano; il tempo cronologico, strettamente legato a ogni contingenza, condiziona il nostro vivere, consuma ogni cosa, affretta la fine. Il pensiero della morte, quel “momento inopportuno”, ha qualche insistenza se il poeta, sentendosi in comunione con gli altri uomini con i quali è andato all’attacco della vita sguainando la spada, consiglia ora di adoperare lo scudo a sola difesa e soprattutto di mettersi in fila, diligenti, per chiedere clemenza a Dio “là, dove il cielo non rischia la morte”.
Nel tempo, troppo rapido per assaporare presente, indifferente al futuro che non ha sogni (Che futuro è il mio futuro/ che vuole cancellare ogni cosa…”), dove solo il passato ha valore di autentica vita, gioca una parte importante il dualismo giorno-notte. Il giorno fagocita la vita con i suoi impegni, le fatiche, le responsabilità; la notte il poeta si appropria del suo tempo per abbandonarsi al nostalgico richiamo di quella sempre più lontana giovinezza che riporta il rumore del mare, la limpida luce di cieli tersi, voci e volti mai dimenticati.
Contro l’indifferente trascolorare delle stagioni, l’idea dominante è bloccare il tempo al quadrante sui cui si è fermato l’orologio del cuore:
“Alla prima stazione/ aspetterò paziente/ soltanto il treno/ che mi riporterà ai vent’anni” (Aspetterò).
E’ quasi d’obbligo il tono ottativo: “Datemi un’alba/ di quelle che vedevo tempo fa/ ed io la fermerò/ dovessi usare il chiodo d’oro/ al quale ho appeso nostalgie perenni” (Datemi un’alba).
Per ridare fiato alla speranza, far rivivere i perduti affetti, ri-sognare di eroi, cavalcare cavalli bianchì, “escogitare trappole d’amore”, si possono inventare favole poetiche come “35 Agosto 2007” e si può far ricorso anche al “tempo dell’impossibile” come in “Tutto ciò che in una notte accade”.
Solo in un tempo utopico si possono vedere e fare cose che non appartengono alla nostra quotidianità di superficie. Coltivare illusioni, sapendo che tali sono, è salutare all’uomo perché egli s’innalzi, come Icaro, sull’aridità del mondo.
E l’amore?
Non c’è poeta che non canti l’amore e Zucchi non fa eccezione. Nella struttura interna della presente raccolta, diverse sue composizioni sono dedicate a “Lei” in cui il poeta domina con gentile sentire una forte passionalità:
“Al tuo risveglio muto,/ vorrei spiare piano/ le nuove fantasie di donna…”. Trascinato dall’amore, egli si sente “onnipotente”, persino in grado di sfidare il cielo; ed è impaziente e ribelle alle deluse offerte d’amore (Ma quale buona notte…).
Ma il passato conserva incontaminate dolcezze, per lui, solo sfiorate dalla triste coscienza dell’impossibile ritorno; sicché il sentimento si compone sul verso con limpida e naturale compiutezza:
“L’amore, allora, si muoveva in fretta,/ al solo accenno d’uno sguardo appena,/ al primo vento di confuse tenerezze,/ al passo lesto dei migliori anni.” (La notte del falò migliore).
L’amore di cui canta, però, non riguarda solo la donna.
Nella varietà delle relazioni umane esso è declinato in moltissime forme. Lo si può trovare ovunque, basta volerlo cercare e saperlo riconoscere. La sola condizione è che bisogna parteciparlo: “Chi lo trova avvisi gli altri” (Dell’amore secondo me).
Tanto amore, non banalmente, fa rima con tanto cuore.
Quello di Zucchi, rimasto impigliato “al primo gioco della vita”; che avverte ancora con l’antica energia e traduce in armonici versi le vive emozioni del tempo in cui ha gioito di cose semplici; che sogna ancora l’amore pulito, ardente e innocente come l’incanto di un giovane sorriso: “accenderò la notte/ con i sorrisi che saprò rubarti” (Accenderò la notte)
Forse è questa la sua idea di felicità.
Angela Ambrosoli